Rubrica d'arte

I migranti della Medusa

Articoli d'arte

Il bacio eterno

Ogni giorno riceviamo notizia di sbarchi di clandestini, i telegiornali trasmettono immagini di facce scure senza nomi e corpi denutriti, torturati dal sole e dall'acqua, mani tese di migranti verso la terraferma, da imbarcazioni troppo strette e inadatte alla navigazione. Non è qui che parlerò di quale intollerabile piaga sia l'immigrazione clandestina, né darò alcun parere politico, perché questo devastante argomento è tuttora sulla bocca di tutti e discusso spesso solo con la voce del più becero populismo. Tenendomi alla larga da queste infami discussioni, risponderò ai servi di partito non con ulteriori schiamazzi senza logica, ma con il sacro silenzio dell'arte.
Nel 1819 un giovane Théodore Géricault immortalava su tela una scena di rara brutalità, in un dipinto che intitolò “la zattera della Medusa” e che può essere osservato nel Museo del Louvre di Parigi. Come la creatura mitologica che prestò il nome alla fregata che naufragò alle coste della Mauritana nel 1816 -esattamente duecento anni fa- questo mastodontico quadro ci pietrifica con la sua cruda spietatezza. Il quadro rappresenta un momento degli avvenimenti successi al naufragio, dopo che la ciurma della fregata -circa centocinquanta persone- fu imbarcata su una zattera di fortuna. Il tragico viaggio di quella zattera arrivò ai confini della sopportazione umana, alle frontiere della bestialità, dove la smania di sopravvivenza si incontra con la follia. Al nono giorno, impazziti e stremati dalla fame e dalla sete, i sopravvissuti si diedero al cannibalismo, dilaniando le carni dei più deboli e dei morti.
Di quelle centocinquanta persone, solo quindici si salvarono, pochi superstiti che seppero sopravvivere alla fame e alla sete, quando il 17 luglio furono portati in salvo dal battello Argus, dopo tredici giorni di inferno. È questo il preciso momento che l'artista sceglie, in tutta questa vicenda, di rappresentare: l'attimo in cui i superstiti scorgono all'orizzonte una speranza di salvezza, la Argus.
La notizia della tragedia si diffuse rapidamente e Géricault seppe darle una magistrale rappresentazione, sebbene fosse il suo primo grande lavoro, dando vita ad un'opera che è diventata l'immagine storica, il supremo ricordo di quello che accadde alla Méduse. Il quadro fu esposto la prima volta nel 1819 al Salon di Parigi col titolo “scena di un naufragio”, ma il vivido ricordo rendeva chiarissimo il riferimento a qualunque spettatore dell'epoca. I pareri e le critiche furono tra i più disparati, chiaramente: la realizzazione di una simile opera significava rovesciare completamente il canone di bellezza del neoclassicismo, tendenza che aveva investito ogni genere di arte dal 1740 fino al XIX secolo, nonostante tutto il talento di Géricault fu riconosciuto e la sua opera premiata.

Notevoli sono le dimensioni del quadro: realizzare un dipinto 491x716 cm significa concedere all'osservatore la possibilità di immergersi completamente nella scena. Stando semplicemente in piedi davanti al dipinto sembra quasi di poterlo attraversare ed entrare nella tela, lasciarsi sovrastare dall'onda e inghiottire dal mare. L'occhio viene inizialmente catturato dal centro della tela, dal livore dei corpi riversi sulla zattera, dal vecchio in primo piano che regge il cadavere del giovane sulle sue ginocchia, e lentamente lo sguardo si muove da sinistra verso destra, dove ci sono i vivi e dove qualcuno ha già visto la Argus all'orizzonte.
Il bacio eterno

Un africano -il ruolo così importante dell'africano fece pensare che Géricault fosse di idee abolizioniste- si alza e si solleva su un barile, agitando un fazzoletto rosso per attirare l'attenzione del battello in lontananza. Un uomo col braccio indica l'orizzonte e volge il capo verso gli uomini dietro di lui, nel gesto di chi, preso dall'eccitazione, racconta cosa ha visto. Altri uomini sollevano le braccia al cielo, pregando di essere portati in salvo. Chi ancora ha energie, si affolla ai piedi dell'africano, affacciandosi dalla zattera per scorgere la salvezza tra le onde minacciose di quel mare nemico che quasi sovrastano la piccola imbarcazione.
I colori sono tetri, lividi. Toni pallidi per i corpi dei naufraghi, toni fangosi per il cielo e il mare. Nel complesso, la scena si presenta tetra e scura, dominata dal tono di marrone per suggerire un senso di drammaticità alla scena. L'illuminazione, definita caravaggesca, proviene dall'angolo destro, dall'orizzonte, dove in lontananza i superstiti hanno visto il lontano battello che li avrebbe tratti in salvo.
Quest'opera, pur avendo dei chiari tratti stilistici della scuola neoclassica, segna un rivoluzionario cambio di tendenza artistica e diventerà perciò ispirazione per i futuri artistici del romanticismo francese, come Delacroix o David.
Il suo crudo realismo parla agli occhi e all'anima, mostrando non la bellezza, non la perfezione, ma l'orrore, la devastazione. Géricault ci obbliga a considerare, anche solo per un momento, le stragi di innocenti che seguono gli errori di capitani inadatti. Il quadro manca volutamente di un eroe, rimpiazzato da gente comune che pagò a caro prezzo gli errori del loro capitano, che aveva fatto incagliare la Medusa nel fondale sabbioso. Uomini come noi, come i migranti di cui riceviamo notizia ogni giorni, con mani tese, occhi speranzose, famiglie da salvare.
C'è l'immagine della nostra specie, in questa scena immortale; siamo noi stessi i protagonisti di questo quadro, radunati sotto il fazzoletto rosso della speranza. Per quanto ci possiamo sentire protetti nelle nostre casette di paglia, siamo anche noi migranti, affamati, disperati, spaventati, mossi solo dal desiderio di sopravvivere, protesi verso una luce lontana, sperando che venga a trarci in salvo prima che sia troppo tardi.
Ma a che prezzo? La sconsiderata spinta alla sopravvivenza infatti può portarci -e così infatti accadde all'equipaggio della Medusa- alle peggiori bestialità, a dimenticare considerazioni e leggi morali che per secoli hanno comandato l'agire umano e trasformare l'uomo civilizzato in una bestia, un mostro. La filosofia, la religione, la scienza, tutto il sapere umano diventano nulla davanti alla carne dilaniata del proprio compagno. La luce della ragione viene sostituita da una pallida nave all'orizzonte. A che scopo? Vivere nella consapevolezza, persino nel ricordo di quanto oscuro e bestiale sia il fondo dell'animo umano, spogliato delle sue cortesi illusioni e del suo falso buoncostume? Nudi, ciechi, privati della morale costruita sulle nostre spalle dai nostri genitori, dai maestri, dai sacerdoti, l'uomo che perde la ricchezza delle sue leggi non è più che un animale che vede dinanzi a sé solo le più primordiali necessità.

Non siamo diversi dai migranti di cui tanto ci preoccupiamo, per le ragioni sbagliate, condividiamo nella nostra specie la stessa nascosta ferocia, e ci accorgiamo di avere zanne e artigli quando rischiamo di perdere quella vita di cui tanto siamo gelosi.
Forse è più saggio il vecchio nel dipinto che volge le spalle alla nave? Fu più ammirevole chi per disperazione si lanciò in mare e preferì morire in balia delle onde? Sono solo folli e barbari quelli che aspettando la Argus?
Ai posteri l'ardua sentenza.

da una pallida nave all'orizzonte. Forse il saggio è il vecchio che volge le spalle alla nave? Fu più ammirevole chi per disperazione si lanciò in mare e preferì morire in balia delle onde? Sono solo folli e barbari quelli che aspettando la Argus? Ai posteri l'ardua sentenza.

 

di Michela Oliviero



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