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La Flagellazione di Cristo

La flagellazione di Cristo

La Flagellazione è un imponente dipinto di Caravaggio, realizzato tra il 1607 e il 1608, conservato nella sala 78 al secondo piano del Museo di Capodimonte a Napoli. Dipinto che ho avuto piacere di osservare dal vivo. Infatti, non si potrebbe parlare di questo dipinto senza considerare la sua posizione nel museo. Penso che l'allestimento della sala sia stato scelto saggiamente. Infatti, la Flagellazione appare da lontano, dal fondo di un lungo corridoio buio, come se stesse emergendo dalle ombre. Il visitatore è costretto ad entrare in questo buio, a tuffarsi nell'oscurità per vedere da vicino il quadro. Le luci, adeguatamente posizionate, ricalcano e valorizzano l'illuminazione che Caravaggio stesso aveva pensato di inserire in questa scena: un raggio di luce illumina il corpo pallido e i muscoli tesi del Cristo in mezzo ai suoi aguzzini, che invece rimangono immersi nell'oscurità; di loro riusciamo a vedere solo parti dei loro corpi e dei loro volti, che l'ombra sembra distorcere orrendamente.
Il visitatore a Capodimonte percorre questo lungo corridoio, finché non si trova davanti a questo quadro imponente (basti pensare alle sue grandi dimensioni, 286x213 cm). È veramente da sindrome di Stendhal. L'orrore, il dolore, la tensione non solo fisica ma soprattutto spirituale ci colpisce con brutalità, e l'atmosfera della sala intera ci trasporta all'interno del dipinto.
Ma facciamo un passo indietro: perché a Napoli?
Alla fine del 1606 Napoli accoglie Caravaggio fuggitivo da Roma per un fatto di sangue: in una rissa l'artista aveva ucciso Ranuccio Tomassoni. Il Merisi a Napoli vive un periodo molto fruttuoso, in cui realizzerà molte opere di eccezionale splendore, quali “le sette opere di misericordia”, “Salomé con la testa del Battista”, “la crocifissione di Sant'Andrea” e ovviamente l'opera di cui ci accingiamo, sempre con molta umiltà, a parlare; la Flagellazione. Questo dipinto venne commissionato dai De Franchis per adornare la cappella di famiglia nella chiesa di San Domenico Maggiore.
Caravaggio, in questo ma anche negli altri dipinti del periodo napoletano, sceglie un soggetto più convenzionale ai canoni della pittura religiosa, adattando ovviamente il suo particolarissimo stile e le sue scelte pittoriche. Viene ripreso quindi il soggetto di Cristo alla colonna, sofferente, nelle mani dei suoi torturatori, giàrappresentato precedentemente in un dipinto di Sebastiano del Piombo, risalente al 1524.
Tutta la scena si svolge infatti intorno alla colonna, alla quale Cristo è legato, con due degli aguzzini disposti ai suoi lati e l'ultimo piegato in avanti, verso il primo piano. Osservando questo dipinto è facile vedere quanto profondamente sono diversi questi corpi, anche solo nelle loro posizioni: il profondo realismo e la tecnica di Caravaggio mostrano dei corpi che, pur non potendosi muovere perché dipinti, trasmettono un incredibile senso del movimento. I movimenti di Cristo sono più fluidi, basti guardare come la schiena è piegata da un lato, e sembra quasi sul punto di cadere, perché le gambe quasi tremano sotto il peso della sofferenza e il calcio di uno degli aguzzini, e non ce la fanno a reggere il busto, che si inclina di lato.
Il dolore, la passione, la sofferenza vengono rappresentati nello sforzo che tende i muscoli del corpo di Cristo, mostrando il vero volto della sua umanità, il prezzo del suo dolore. Eppure, tali sensazioni assumono un aspetto di divina rispettabilità: torturato, legato, Cristo conserva il suo decoro. Il suo corpo si piega come un giunco, ma con grazia, sembra quasi che stia danzando. È il figlio di Dio, anche nella sofferenza.
Molto più rozzi e secchi invece sono i gesti dei torturatori: mentre uno lega Cristo alla colonna, l'altro gli tira i capelli, come nel gesto di sollevargli il capo e il busto. Nel suo volto, nascosto per metà dall'ombra, si leggono crudeltà e cattiveria.
Questi tre personaggi potrebbero essere visti come tre orrendi diavoli, incaricati di torturare Gesù: notare quanto siano completamente diversi, per esempio, da quelli ne “la crocefissione di San Pietro”, dove gli aguzzini che sollevavano la croce di San Pietro non erano mossi da crudeltà alcuna, ma erano mostrati come uomini semplici colti nel loro usuale lavoro -per quanto discutibile- e questo si può leggere facilmente dalle loro espressioni affaticate, non crudeli, e dai loro abiti di povera fattura, come se fossero personaggi della sua epoca.
Il raggio di luce che colpisce il corpo di Cristo non serve solo ad aumentare la drammaticità tipica dei quadri di Caravaggio: a mio parere, nel momento in cui Gesù è l'unico ad essere colpito dalla luce, questo raggio serve a ricordarci che, nonostante le pene e le sofferenze, egli sarà destinato alla vita eterna e al paradiso.
I suoi aguzzini nelle tenebre stanno e alle tenebre torneranno, dopo la morte.

Lo stesso soggetto del Cristo alla colonna è in un altro dipinto caravaggesco, di difficile attribuzione. La critica è divisa nell'attribuire questo dipinto allo stesso Caravaggio o se considerarlo una copia da un originale di Caravaggio. L'ipotesi di Roberto Longhi è che questo dipinto fosse un'eccezionale copia di Vincenzo Camuccini. Anche in linea temporale è difficile trovare una collocazione a questo quadro che molti reputano precedente al periodo napoletano di Caravaggio, mentre altri affermano che sia stato realizzato dopo il 1607.

 

Quest'aprile la Flagellazione è stato onorevole ospite ad una mostra alla Reggia di Monza: lasciando da parte le polemiche su se sia giusto o sbagliato, se il quadro principale di un museo possa lasciare la sua sede, mi auguro che quest'occasione sia stata utile a chi non conosceva questo quadro, nella speranza che possa esserci più affluenza -meritatissima- di turisti nel Museo nazionale di Capodimonte, perché dipinti di tale splendore vanno mostrati, condivisi, devono essere conosciuti da tutti. Non solo fuori da Napoli, ma anche nella città stessa, dove gli abitanti dovrebbero essere i primi a conoscere le grandi opere di valore che sono giusto dietro l'angolo. Invece, spesso noi nemmeno sappiamo dove sono, dove trovarle, e questo è paradossale in una società dove il portale di ogni informazione -internet- ce lo portiamo giusto in tasca. Quindi spesso cambiamo strada, distratti, mentre opere immense non vengono apprezzate perché sepolte sotto veli di indifferenza.
L'arte va osservata ma soprattutto vissuta, e dei grandi capolavori non si può parlare con superficialità, senza farsi cogliere dalla passione. Abbiamo occhi per vedere, per apprezzare la bellezza.
Torniamo al museo, riscopriamo la bellezza. L'arte non è un segreto, ma è un dono alla collettività.

 

di Michela Oliviero



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